Enzo Carioti e il Museo in una Stanza
(Viana Conti)
Residui di una conversazione tra un pittore e un critico
Genova, 15 novembre 1990, nell’atelier dell’artista
a cura di VIANA CONTI
L’uno (Enzo Carioti)
No, assolutamente non dipingo più. A nessuno oggi è più concesso di fare il pittore. Lavoro soltanto
su riproduzioni, intendo dire riproduzioni di opere d’arte. Le puoi trovare dappertutto, anche
nella spazzatura. La civiltà dell’immagine ha iperprodotto. Dunque che senso ha continuare a
produrre altre immagini? Si è prodotto un deserto moltiplicando i segni? E io in questo deserto
faccio crescere il mio giardino. La riproduzione è un fatto centrale del mio lavoro, occorre parlarne.
La questione verte intorno allo sguardo, all’unicità perduta dell’opera d’arte, a una tattilità mancata.
Nei miei lavori precedenti recuperavo il senso dello spazio come corpo della pittura, in quelli
attuali recupero l’energia di chi guarda come impalpabilità dell’opera.
Mi è piaciuto fare un passo indietro, verso la pittura tradizionale.
Cosa è rimasto di quelle tele su cui generazioni e generazioni hanno fissato gli occhi? Eccole
sbiadite dal sole, aggredite dall’inquinamento, logorate dai viaggi di mostra in mostra, di museo
in museo!
Stop, per favore, adesso le lasciamo dove sono e incominciamo a viaggiare noi.
L’unica parte viva è il deposito degli sguardi che via via vi si sono accumulati sopra. Quegli
sguardi sono materia prima per me. Occorre saperlo.
Mi sono reso conto di poter lavorare sulla pittura come oggetto d’altri. Non dipingo più, ma intervengo
sopra alla pittura. La mia sconfinata attenzione nei suoi confronti diventa l’unico oggetto
del mio sguardo, direi meglio…il mio sguardo diventa un suo oggetto.
Non è il caso di drammatizzare la perdita dell’originale. In clima di proliferazione della copia è
l’unicità che acquista un che di tragico. E’ come se ogni possibilità di guardare si limitasse allo
sfoglio di un libro d’arte. La grande pittura esiste, ha già una sua vita e una sua funzione, che non
può in alcun modo riguardarmi. Io sono interessato a una condizione dove siano andati perduti
l’autenticità dell’opera, il suo valore di pezzo unico, la firma, la tecnica, il peso storico.
L’unico modo per fare mio un lavoro è quello di non averlo, ecco perché la riproduzione. Ma
non è proprio questa che mi consente di averlo là dove io lo voglio, su quel mobile, nella mia stanza,
sotto quella finestra?
Fine delle malinconiche processioni nei musei. Adesso ho un museo personale. La non-informazione
inviatami dalla riproduzione mi sollecita a tradire l’originale, mi stimola a una dimensione
propositiva. L’immagine esiste nella ricostruzione che ne opera l’occhio.
Questo è un Antonello da Messina. Costruisco con listelli di cartone una griglia per imbrigliare
l’immagine e registrarvi i punti di accumulo di energia. Quello è un Sangallo, questo è il busto
di un giovane romano. Sono sovrapposizioni di materiali semitrasparenti, veline grattugiate.
E’ una fotografia di Mapplethorpe, si intitola Camera oscura. La massa del corpo si iscrive nelle mie frecce diagonali, si impiglia nelle traiettorie di luce e di investimento energetico.
Non mi interessano l’autore, le scuole, i periodi, lo stile, ma soltanto la pittura, la sua macchina
da smontare. Questo è un ritratto di Tiziano.
Guarda quest’opera, non ti dico che cos’è.
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Il mio lavoro si stratifica sul piccolo manifesto di una mostra in una chiesa veneziana, forse San
Moisé. E’ la barca di Monet. Ho accostato l’opera intera al suo particolare, in una sorta di percorso
critico-didattico. E’ il San Sebastiano del Sodoma. La mia opera diventa come un’analisi chimica di un tessuto dove dei liquidi colorati rendono visibile un reticolo altrimenti invisibile a occhio
nudo. Io coloro l’aria che aleggia sul dipinto, la sua tensione energetica.
Si isolano così percettivamente dei canalini che convogliano lo sguardo in determinate direzioni,
quasi scariche elettriche…zac zac zac, tic tic tic. E’ un’opera della Scuola di de La Tour.Voglio
pensare alla pittura, implicarla nella mia manualità, svincolarla quindi dal mio pensiero, riconsegnarla
forse a chi guarda, come percorso verso la pittura.
Il pittore deve dipingere… io sono legato alla sua immagine antica più che mai.
Questo è il mio Pontormo, il giovane alabardiere. Ricordi il mio lavoro su Richard Tuttle e Pontormo?
Vivevo la convinzione che questi artisti dovessero in qualche modo incontrarsi, foss’anche
attraverso di me, come collegamento, diciamo, elettro-meccanico.
Non ci è più concesso di vivere le emozioni in diretta. Anche le opere d’arte, per raggiunti limiti
di età, saranno custodite nei parchi della memoria collettiva e individuale.
Sarà la memoria a restituircene il ricordo struggente.
La riproduzione potrà riempirne il vuoto come nuovo oggetto dei desideri dello sguardo.
Occorre crescere nella cultura del distacco. La solitudine è quel luogo silenzioso dove ritrovi
la compagnia dell’altro. Quel luogo dove un’opera d’arte, usurata dagli sguardi del mondo, ridiventa
mia, attraverso la sua riproduzione.
In solitudine reinvento le condizioni per un abbraccio totale della pittura attraverso un processo
manuale. Ritaglio, ricompongo, avvicino e allontano la lente d’ingrandimento, scrivo i punti luce
del mio e dell’altrui sguardo. Se non ho avuto il tempo per essere presente adesso ce l’ho per
assentarmi.
Produco sulla riproduzione, guardo chi guarda, immagino di immaginare.
Fine del pittore, adesso sono un cursore.
L’altro (Viana Conti)
Tu sei quello che mette in questione la propria creatività…ma allora io chi sono? Facciamo che
io sia l’altro, quello che ti rimanda indietro le domande. Parli di energia e di sguardo, di recupero
del momento energetico dell’opera attraverso gli investimenti dello sguardo.
Quando il tessuto dell’opera è sfibrato, tu gli costruisci una nuova fibra, lo consegni a un’eternità
altra, da cui decidi di essere attraversato. Operi quindi sulla vita. Sostieni che gli sguardi del
mondo consumano l’opera dell’artista ed è qui che intervieni, ricostruendole addosso il percorso
del tuo stesso sguardo. La sottrai al destino della sua storia per immetterla nel tuo quotidiano, le
consegni una seconda origine, smettendo di contemplarla nel museo: la prendi per strada per
condurla nel tuo studio. C’è un passaggio dal pubblico al privato, dal mediatico all’intimo. Alla fine
te ne liberi in qualche modo o te ne appropri definitivamente? L’inautenticità della ri-produzione
ti serve per stabilire l’autenticità del tuo contatto. L’esangue sei tu o la pittura di cui ti nutri? E’
come se tu avessi perso il contatto con il mondo e digitassi solo sulla pittura, come alternativa al
reale. Non più spostamenti verso il di fuori, ma nomadismo sur place. Può essere un modo per accumulare altre energie. Non fai deragliamenti duchampiani per immettere le opere che usi in
altre correnti di pensiero. Il contesto non ti interessa sostanzialmente, perché dici di non lavorare
intorno alla pittura, ma sopra.
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Caduta l’emozione di fronte all’originale, ti emozioni di non emozionarti, adesso.
Verrà un giorno in cui ognuno avrà il suo museo in casa, con la facoltà di richiamare tra le pareti
domestiche un Leonardo, un Klee, un Pollock. Attraverso un collegamento via satellite si affacceranno
sul monitor tutte quelle opere che il nostro ricordo tiene in vita e che una banca dati
custodisce (Katsuhiro Yamaguchi, artista e teorico tra i primi a realizzare installazioni di Lasertrees, di Artificial gardens). Tu, Enzo, invece di entrare in rete per portare il Museo nella tua Stanza, apri il Libro. Non sorprende
che l’ideatore dei giardini del futuro, delle vasche di pesci rossi virtuali, sia giapponese,
mentre tu, cursore dei capolavori della Storia dell’Arte, sei europeo. I fantasmi del suo immaginario
sono l’ologramma, l’intelligenza artificiale, i replicanti, la moltiplicazione frattale dell’io, i tuoi
sono Beckett, Borges, Joyce, Benjamin, Blanchot, Barthes…Bacon, Artaud.
L’alta definizione è dalla sua parte, l’alta sdefinizione dalla tua. Una volta c’era la pittura, adesso c’è l’immagine della pittura, una volta l’originale era solo fedele a se stesso, adesso la fedeltà
è tra copia e copia e tutte tradiscono l’originale.Ti lasci sedurre più dalla carta patinata, che
dalla tela dipinta. Rifiuti o comunque resisti alla malattia storica dell’opera e alla produzione di nostalgia.
Eppure in rapporto alla ben nota opera di Benjamin, intorno alla riproducibilità, tu crei una
situazione paradossale. L’investimento visivo di cui parli crea una corrente di lettura e di movimento
intorno all’opera che favorisce un riaffiorare dell’aura. Non è piuttosto la perdita di quest’aura che la ri-produzione provoca? Non cesso di chiedermi di quale materia sono fatti i tuoi lavori.
Mi sembra perfino di vedere dell’alabastro nei tuoi infiniti giochi di semitrasparenze. Metti in
moto un dispositivo che crea effetti di superficie e di profondità, di frontalità e di obliquità. E’ come
se i tuoi e gli altrui occhi avessero annesso al sapere umano velocità e istinti animali. Curioso
parlare di umano in epoca di post-human.
A volte il tuo sguardo si organizza in struttura architettonica: sulla piattezza di un documento
erige la solennità di un monumento. E’ un’invenzione carica di presente la tua, intrisa di tutte le sue problematiche. La tua è un’opera in de…de-realtà, de-costruzione, de-territorializzazione, de-privazione. L’arricchimento che sottoscrivi è in perdita. Il rimando alla cultura del nomadismo,
della seduzione baudrillardiana, del pensiero debole, del mitteleuropeo uomo senza qualità, della
camera chiara di Barthes, aleggia sul tuo sfondo, nel tuo retropensiero. L’emozione della presenza è un lusso, una lussuria, i tempi richiedono di trasformare in presenza anche l’assenza o
comunque di trasformare l’assenza in pretesto emotivo per superarla.
La passione, tu dici, non è più vissuta con l’altro, ma moltiplicata nelle sue modalità di trasmissione. Alla fine quindi tu crei un percorso piuttosto che un oggetto circoscrivibile, un percorso
di smarrimento dell’immagine e di ritrovamento dello sguardo. A tutti quei luoghi e modi del
vedere, che prima implodevano in un vuoto di senso, tu ora hai dato convegno nella Stanza di
una Casa davvero singolare: un Museo alla Memoria del Sentire.